Sette album, vent’anni di palchi e centinaia di concerti, spettacoli teatrali e progetti che non ti aspetti. Sono le cifre che riassumono la band carpigiana Flexus, trio elastico guidato da Gianluca Magnani, voce, chitarre, pianoforte ed autore principale, con Daniele Brignone al basso ed Enrico Sartori alla batteria. Le orchestre non suonano più è il loro nuovo lavoro, 12 brani che arrivano oggi a transitoria definitività, dopo un rodaggio, spesso anche assai lungo, sul palco.Transitoria perché, per provare a definire la dimensione autorale e stilistica della band, il disco, pur nella sua ricchezza pluridimensionale, sta un po’ stretto. Dietro a queste 12 canzoni, infatti, nella sintesi perfetta della registrazione, sgomitano istanze testuali e patrimoni musicali compositi, che sul palco, invece, per naturale epifania, spesso si affacciano espandendone i confini sonici e lirici. E basta fare un giro sulla Rete per accorgersene. Accanto a Gaber, De André, De Gregori, riferimenti non ovvi ma nemmeno sorprendenti per chi a 20 anni, all’alba del nuovo millennio, cerca una propria via alla canzone d’autore, spuntano collaborazioni, queste sì sorprendenti, come quella con Il Coro delle Mondine di Novi, con il quale i Flexus collaborano stabilmente da oltre 10 anni, con la Banda Bignardi di Monzuno, una istituzione nelle terre dell’Appennino bolognese, e accanto i tour europei con Joan As Police Woman e Modena City Ramblers e spettacoli teatrali con Ottavia Piccolo ma anche nelle scuole, alle quali è rivolto La storia del rock, progetto live di educazione musicale non convenzionale, che conta oltre 400 repliche.
E proprio come quelle orchestre che ora non suonano più, soppiantate dai dj, i Flexus hanno coltivato, e coltivano, una naturale inclinazione alla musica popolare che non conosce confini, geografici, storici, stilistici, incorporando nella propria identità artistica Woody Guthrie e i Nomadi, la tradizione irlandese e Phil Ochs, il folk rock balcanico. E davanti ed in mezzo a tutto questo, una prepotente vena rock, a tratti visionaria ed un tratto narrativo che declina con sicurezza e personalità lo slang tutto emiliano di certa canzone d’autore, quella della bassa. I già ricordati Nomadi, ma anche, quando le ballate alzano la voce e diventano combattenti, Pierangelo Bertoli.
C’è, anche, tutto questo nel nuovo album dei Flexus, istanze sotterranee implicite che illuminano le 12 tracce, inedite, scritte per la maggior parte in solitudine da Gianluca Magnani. Sono piccole storie d’amore rubato e negato, e grandi storie di amore promesso, riflessioni sul complicato rapporto genitoriale, letto da entrambi i lati del cannocchiale del tempo, che danzano su melodie gentili o si frantumano, fantasmi di una antica impazienza adolescenziale, nella spirale di crescendo mercuriali. E ancora, sono canzoni di appartenenza, ad una terra e ai suoi valori resilienti di solidarietà e coraggio, come il coraggio di guardare oltre la confidente convenzionalità. Sembra un disco semplice, questo Le orchestre non suonano più, quasi desueto nella scorrevolezza arrendevole di scrittura ed arrangiamenti, e di suoni che rimandano a stagioni pre logaritmiche. Per nostra fortuna, non lo è affatto.
Gianluca, 20 anni di Flexus. Partiamo da qui, da questi due decenni lontani dai radar del mainstream. Ricerca, palchi, scrittura e riscrittura…
Lontano dai radar del mainstream esiste un mondo concreto e reale dove si fa comunque tanta musica. Siamo consapevoli di avere una storia del tutto particolare: dal dicembre 2001 i Flexus hanno continuato ininterrottamente e con la stessa formazione composta da Enrico Sartori (batteria), Daniele Brignone (basso) e da me. Formazione fissa ma aperta ad altri musicisti, attori, coreografi, tecnici, che hanno collaborato con noi su percorsi sempre diversi. 20 anni che sono diventati 7 album, spettacoli di teatro musicale, collaborazioni decisamente disparate. Ad oggi abbiamo alle spalle più di 1000 concerti in Italia e qualche puntatina all’estero (Spagna, Polonia, Svizzera, Croazia, Slovenia). E’ difficile spiegare come questa realtà sia riuscita a concretizzarsi. I Flexus sono diventati il nostro lavoro e spesso anche molti musicisti si stupiscono di quello che riusciamo a produrre, organizzare, spesso anche distribuire con le nostre forze.
Le orchestre non suonano più. In Emilia abbiamo avuto una grande tradizione di orchestre e soprattutto di orchestrali. Artisti di talento, onnivori e curiosi, che proprio nel rapporto con il pubblico delle sale hanno sviluppato la propria cifra di interpreti e performer. Uno per tutti, Francesco Guccini. I Flexus, tecnicamente, non possono essere definiti una orchestra. Eppure, ci sono molti punti di contatto, a mio avviso. La trasversalità dell’approccio multistilistico, la continua e diversificata attività live, nei locali, nelle feste popolari, nei teatri, nelle scuole, nei raduni rock. Flexus. Flessibili, insomma? Vi sentite un po’ orchestrali?
Ogni tanto ci capita di incontrare qualche vecchio musicista che negli anni 60/70 suonava nelle grandi orchestre del periodo. Penso a realtà come i Supercircus di Andrea Mingardi: gruppi che suonavano 4 / 5 ore a sera, 6 sere a settimana. E dovevano suonare tutto, dal rhythm & blues alla canzone d’autore, dai ballabili al cabaret e ci rendiamo conto di che grande tradizione musicale ha la nostra terra. Senza fare i soliti grandi nomi, l’Emilia ha visto generazioni di musicisti preparati e organizzati, orchestre ora dimenticate che hanno avuto una lunga storia. Non è un caso se poi qui sono potuti fiorire tanti grandi artisti. Nel nostro nuovo album cantiamo anche una canzone Dancing La Playa ambientata in una di queste vecchie discoteche, cattedrali quasi abbandonate del mondo pre-covid, dove le uniche serate erano quelle infrasettimanali dedicate ai balli latinoamericani. Ci siamo accorti a disco ultimato di quanto queste canzoni in realtà parlassero delle nostre zone. Spesso ce lo fanno notare quando siamo in giro per concerti. In qualche modo ci sentiamo sempre vicini alla nostra terra, raccontandola anche attraverso prospettive inusuali. Abbiamo suonato davvero in luoghi e situazioni molto diverse, sulle navi, nelle carceri, nelle chiese, addirittura in una necropoli, fino ad arrivare ad alcune date nei palasport in apertura ad altri gruppi. Forse questo nome, Flexus, che ci siamo scelti tanto tempo fa, conteneva un messaggio premonitore.
Parliamo di collaborazioni in qualche modo non usuali. Nel nuovo album ne troviamo due, Il Coro delle Mondine di Novi e la Banda Bignardi, di Monzuno. Tradizione e orgoglio emiliano? Che ci fa una band rock/pop con un coro di mondine e con una banda di paese (mi scuso con loro per la voluta provocazione giornalistica)?
La storia con il Coro delle Mondine di Novi non è improvvisata. E’ un rapporto lungo e continuativo nato nel 2009. Con loro abbiamo fatto centinaia di concerti, due videoclip, presentazioni di libri, organizzazione di Festival. Sono una delle realtà più importanti della musica popolare italiana e poter suonare con loro è sempre un onore. La canzone I pugni in tasca è stata scritta proprio per raccontare la storia di tre donne del coro: Diva, Lidia e Silva, fondatrici di questa realtà nel lontano 1972. Più recente la collaborazione con la Banda Bignardi di Monzuno, inizialmente suggerita da Danilo Malferrari dell’associazione Le Nuvole. Con loro abbiamo voluto registrare E allora tu. Volevamo un tocco circense, un pò alla Nino Rota e questi bravissimi musicisti si sono fatti trascinare nel progetto, seguendoci anche nel videoclip girato proprio sui colli bolognesi, in un pulmino scolastico pieno di musicisti. E’ una canzone che parla di vita prima della vita, essendo dedicata ad una bambina che deve ancora nascere. Volevamo inserire alcune suggestioni musicali e visive, evitando certi stereotipi che l’argomento poteva indurre. Ne è nata questa polka elettrificata a metà tra la musica d’autore e Fellini.
In Rete si trova un frammento di un concerto nel quale canti a due voci una sentita versione di There But For Fortune, di Phil Ochs. E, dieci anni fa, i Flexus hanno portato in tour This Land Is Your Land, di Woody Guthrie. Anche il Folk Revival, nel vostro patrimonio genetico di artisti?
Quel pezzo di Phil Ochs è stato cantato con Maria Giulia Contri, storica direttrice del Coro delle Mondine (purtroppo recentemente scomparsa, nda) in un concerto molto emozionante all’Aia Folk Festival di Novi lo scorso settembre. Ma i Flexus hanno sempre attinto dalla musica popolare cercando di riproporla attraverso il loro suono. Sicuramente ci sono state suggestioni filo-americane come quelle che hai citato, ma non solo. Nel nostro album precedente avevamo ripreso Mostarskij ducani, brano bosniaco che arriva dal XVII secolo riletto in chiave funk/rock, brani dalla tradizione irlandese dell’ottocento, canti dal Sud Africa. E poi tanta musica popolare italiana, un esempio tra tutti il brano Se otto ore che nel ritornello riprendeva un canto popolare del lavoro. Stiamo parlando dell’Italia del primo dopoguerra. In questo album c’è anche Cinque monete: una canzone che risente di queste suggestioni popolari, oserei dire etniche. Racconta la storia, senza tempo, di chi è costretto a partire dalla propria terra per cercare una possibilità di sopravvivenza da qualche altra parte rischiando tutto.
Tornando a Le orchestre non suonano più, il brano La casa va a fuoco è incendiario per davvero. Una, per certi versi inattesa, esplosione rock innestata su una folk ballad dal forte accento americano. O almeno, questo è il mio immaginario ogni volta che la ascolto. Per tensione e dimensione sonora unico tra i 12 brani del disco. Piccola provocazione: perché tenere a freno tanta potenza e non liberarla più spesso?
La casa va a fuoco aveva bisogno di quella esplosione. E’ un brano per certi versi drammatico che racconta di un ragazzo, di un uomo della mia generazione che a un certo punto abbandona progetti, speranze, rischi, prospettive individuali per adeguarsi ad una vita prestabilita e apparentemente sicura. Dopo un’infanzia e un’adolescenza spensierata in cui gli sono state fatte promesse inattendibili a un certo punto si scontra con la vita reale. Dopo due o tre millenni restando a boccheggiare si accorge che è troppo tardi, che ha “troppi anni ormai per aver coraggio” e si chiude idealmente dentro casa, aspettando il coprifuoco. Da un certo punto di vista è un brano piuttosto profetico, essendo stato scritto alcuni anni fa.
Un brano, e questa mi pare una caratteristica Flexus, che entra in un album solo dopo una lunga gavetta di sperimentazioni live. Quando capisci che una canzone è pronta per affrontare il mondo?
Credo che ci siano tanti modi per arrivare a sviluppare un brano. A me piace pensare che una canzone arrivi “a compimento”, che musica, testo e arrangiamento siano completamente a fuoco, come una foto che riesca a ritrarre un soggetto precisamente. Spesso nella scrittura iniziale parto da suggestioni che mi sembra di captare. Comincio a sentire che in quella successione melodica c’è qualcosa da dire, ma lascio che sia la canzone a portarmi dove deve andare senza imporre per forza un argomento o una linea di base. A volte una canzone viene suonata davvero in centinaia di modi per arrivare a trovare una strada. In questo modo il processo creativo può diventare anche estremamente lungo e laborioso, ma fino ad oggi è l’unico modo che mi ha permesso di dare un senso profondo ad una canzone, evitando estetismi posticci. In tutto questo il lavoro di gruppo è fondamentale perché possono nascere sguardi inaspettati che vedono le cose da angolazioni differenti e che mettono in luce pregi e difetti di un brano. E come dici tu, ti accorgi della validità vera di un brano solo quando cominci a inserirlo nella scaletta dei concerti.
La scuola, i giovani adulti di domani. E’ un tema particolarmente caro ai Flexus, che da una decina di anni portano in giro La storia del rock, progetto educativo sotto forma di concerto, rivolto alle scuole superiori, che ha superato ad oggi le 400 repliche. E con gli scolari più piccoli, quelli delle elementari, avete realizzato lo scorso anno un video reinterpretando con alcune quinte classi La Libertà, di Giorgio Gaber. Ma com’è raccontare e suonare Dylan, Hendrix, Pink Floyd ai figli dei Millennials?
La storia del rock ha girato tanto in questi anni raggiungendo palchi assolutamente prestigiosi come il Teatro Alighieri di Ravenna e la Casa del Teatro Ragazzi di Torino. Quando abbiamo iniziato a portare in giro questo progetto, 15 anni fa, i ragazzi vedevano ancora il rock come una musica di rottura, diciamo una musica “giovane”. Ora il rock è stato completamente storicizzato. I ragazzi non lo conoscono o lo conoscono pochissimo. Spesso c’è confusione anche sulle “icone” del rock.. Elvis, i Beatles.. Penso che sia anche un fatto comprensibile. Un ragazzino della scuola media di oggi, nato nel 2009, se ascolta Elvis sente una voce lontana, un’istantanea che arriva da quasi 70 anni fa. E’ come se da ragazzini ci avessero fatto sentire un’incisione di Petrolini. E in questi termini La storia del rock diventa un progetto ancora più importante perché trasmette un entusiasmo inaspettato alle nuove generazioni. Abbiamo saputo che tanti ragazzi giovanissimi, dopo il nostro concerto, hanno deciso di iscriversi in una scuola di musica o di mettere in piedi una band. Di questo siamo molto orgogliosi.
Come ti immagini i prossimi 20 anni Flexus? Oppure, come li vorresti?
Non mi piace fare previsioni troppo precise e schematiche sul futuro. Questi 20 anni sono stati davvero pieni di tutto, senza sosta, facendo una miriade di progetti e spettacoli diversi. E per questo mi piacerebbe che il futuro ci permettesse di concentrarci meglio sulle cose più importanti, sviluppando maggiormente la nostra produzione artistica originale. Cosa vorrei? Che le nostre canzoni avessero più spazi per farsi conoscere.